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Archive for the ‘I film da rivedere’ Category

Il concerto

Un film di Radu Mihaileanu. Con Aleksei Guskov, Dmitri Nazarov, François Berléand, Miou-Miou, Valeri Barinov. Titolo originale Le concert. Commedia, durata 120 min. – Francia, Italia, Romania, Belgio 2009. – Bim

Andreï Filipov è un ex direttore di orchestra del Bolshoi deposto per ragioni politiche; all’epoca di Brežnev, rifiutatosi di licenziare la sua orchestra, composta prevalentemente da ebrei, è stato dichiarato “nemico del popolo” e gli sono state tolte la dignità e la bacchetta. A distanza di trent’anni da quella circostanza,  è ridotto a fare le pulizie in quello stesso teatro che era stato palcoscenico della sua grandezza. Le cose cambiano quando, facendo le pulizie nell’ufficio del direttore, Andreï intercetta un invito all’orchestra del Bolshoi da parte del Théâtre du Châtelet per suonare a Parigi. Appropriatosi indebitamente del fax e cancellate le prove del contatto con Parigi, Andreï riunisce la vecchia orchestra, progettandone il ritorno in scena e il riscatto personale e artistico.

Dopo Train de vie (1998), in cui gli abitanti di un villaggio ebreo della Romania mettevano in scena una finta deportazione travestendosi da finti deportati e da finti ufficiali nazisti per passare il confine e trovare la salvezza in Russia, troviamo gli ebrei di Mihaileanu privati della musica e della dignità, ridotti a dover compiere i lavori più umili per poter tirare avanti. Il film di Mihaileanu evidenzia una circostanza storica pressoché sconosciuta: la condizione della popolazione ebraica  negli anni del totalitarismo di Brežnev. L’orchestra del film si rifà a quegli artisti che negli anni della dittatura si macchiò di dissenso nei confronti del partito pagando con l’abbandono della musica, l’esilio o, nei casi peggiori, con la deportazione nei campi di lavoro; il film ne ripercorre l’insuccesso con toni a metà tra il grottesco e il malinconico: un “gruppo di falliti e sbandati” che dai fasti musicali del passato si è piegato ai lavori più umili per poter sopravvivere.

Il personaggio di Andreï Filipov, reso magnificamente da Aleksei Guskov, è un folle gentile in cerca di riscatto, capace di mettere in moto una girandola di eventi e di bugie per poter realizzare un sogno (in questo caso il Concerto per Violino e Orchestra di Tchaikovsky, con Anne-Marie Jacquet – Mélanie Laurent – come primo violino) e per poter finalmente riscattare il proprio nome e le sorti della sua orchestra. Passando dalla fotografia sbiadita di una Mosca opprimente alle luci splendenti e ricche di promesse dell’incantevole Parigi, Andreï riporta in vita una magnifica ossessione, quella ricerca di perfezione dell’armonia che, dal palcoscenico del Théâtre du Châtelet, riporta con la memoria ai gulag innevati, liberando (e completando, dopo anni) quella musica per troppo tempo rinchiusa nella mente e nelle dita dei musicisti finiti allo sbando.

Circondato da ottimi comprimari (menzione speciale, oltre alla sempre brava Laurent – la folgorante Shosanna di Inglourious Basterds di Tarantino, a Dmitri Nazarov nella parte di Sasha Grossman e a Valeri Barinov, fervente comunista nuovamente improvissatosi agente), scandito da un’ottima colonna sonora che raggiunge l’apice nel finale, Mihaileanu realizza un film sincero (pur contenendo alcune situazioni un po’ troppo stiracchiate, concentrate nell’arrivo – e nella dispersione – dell’orchestra a Parigi), divertente e commovente, in cui ancora una volta l’invenzione e la potenza creativa vengono utilizzate per sconfiggere il male e per risollevare la propria condizione.

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Un film di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Mark Ruffalo, Ben Kingsley,  Michelle Williams, Patricia Clarkson, Max von Sydow. Drammatico,durata 138 min. – USA 2010. – Medusa. – VM 14

È il 1954, e due agenti federali, Teddy Daniels (Leonardo DiCaprio) e Chuck Aule (Mark Ruffalo) arrivano nel manicomio criminale di Ashecliff, situato a Shutter Island, un’isola nel golfo di Boston, per indagare sulla scomparsa di una pericolosa infanticida, Rachel Solando. Nonostante le dichiarazioni del direttore dell’istituto, il dottor Cawley (Ben Kingsley) e degli infermieri, i quali affermano che Rachel sia praticamente scomparsa nel nulla, l’agente Daniels nutre dei sospetti sul modo di agire del dottor Cawley e del suo assistente, il dottor Naehring (Max von Sydow). A causa di un uragano, i due agenti sono costretti a protrarre il loro soggiorno sull’isola e, mentre le indagini proseguono, affiorano poco alla volta indizi inquietanti, che si mescolano ai ricordi di Daniels della II guerra mondiale.

Dopo il film-documentario sul gruppo rock dei Rolling Stones, Shine a light (2008), Scorsese torna dietro la macchina da presa riadattando per il grande schermo il romanzo di Dennis Lehane (uscito in Italia con il titolo L’isola della paura, editore Piemme). E lo fa raccontando la discesa nell’inferno della follia di un ennesimo ‘uomo di violenza’: un ottimo DiCaprio tenta di farsi largo tra i devastanti ricordi della guerra (magistrale la carrellata degli ufficiali nazisti uccisi all’ingresso degli americani nel campo di Dachau, un vero e proprio macabro balletto di morte), quelli della moglie morta che non riesce a ‘lasciare andare’ e gli innumerevoli segreti e manipolazioni da parte del Dr. Cawley e del suo staff. Scorsese ha sempre avuto una particolare predisposizione nel trasporre in immagini le tragedie interiori dei protagonisti dei suoi film (basti pensare, in questo senso, ad un altro suo film, Al di là della vita – 2000 – in cui il protagonista, Nicholas Cage, si ritrovava faccia a faccia con i fantasmi della sua vita e con l’angoscia per il presente): l’impossibilità del protagonista di aderire alla realtà che lo circonda e di accettare la verità si fonde con l’incapacità di raccontare un mondo dove dominano violenza e falsità, dove ogni cosa non è quello che sembra, dove ogni nuova sperimentazione è guardata con sospetto e credere ad una cospirazione a livello mondiale è più semplice che accettare il proprio lato buio (o, quantomeno, è indispensabile per la sopravvivenza).

Pur presentando allo spettatore un film tecnicamente ineccepibile, con ottimi  attori (oltre ai protagonisti, menzione speciale per il sempre ottimo Jackie Earle Haley e per la minacciosa apparizione di Elias Koteas), splendide scenografie (Dante Ferretti), un montaggio (quasi sempre) ritmato (Thelma Schoonmaker) e una partitura sonora inquietante e pressante, sia per quanto riguarda la colonna sonora che per il montaggio sonoro vero e proprio (tralasciando il rumore degli spari, ogni fiammifero acceso ha la potenza acustica di un’esplosione), cade in ripetizioni e in eccessivi dilungamenti, specialmente verso il finale. Scorsese sembra quasi aver paura di non risultare abbastanza chiaro nel dipanamento del mistero, e obbliga lo spettatore ad una tripla spiegazione. Se il Teddy Daniels di DiCaprio rappresenta la perfetta sintesi dell’uomo alienato, altrettanto imperfetta risulta questa trasposizione, in un film che mantiene le sue promesse di intrattenimento, pur risultando uno dei  meno riusciti della carriera di Scorsese.

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Un film di Peter Jackson. Con Mark Wahlberg, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Stanley Tucci, Saoirse Ronan, James Michael Imperioli  Titolo originale The Lovely Bones. Drammatico, durata 135 min. – USA, Gran Bretagna, Nuova Zelanda 2009. – Universal Pictures – VM 14.

Tratto dall’omonimo romanzo di Alice Sebold, Amabili resti racconta la storia di Susie Salmon (Saoirse Ronan),  stuprata e uccisa all’età di quattordici anni da un vicino di casa (Stanley Tucci) e rinchiusa in una dimensione che le permette di rimanere in contatto con la sua famiglia suggerendole, così, l’identità del suo assassino.

Il regista neozelandese Peter Jackson torna a parlare di un’altra ‘terra di mezzo’, vista come possibilità di riscatto per le ingiuste sofferenze subite scegliendo, però, di suggerire più che mostrare (su tutte, la scena in cui Susie si rende conto di essere stata uccisa). Il romanzo da cui è tratto il film, infatti, contiene riferimenti autobiografici dell’autrice, anch’essa vittima di violenza sessuale quando aveva quattordici anni.

Questa volta, però, Jackson sembra non aver voluto (o saputo?) osare, riducendo la trama in blocchi fin troppo definiti e delimitati: ogni personaggio principale, dal padre (un sempre ottimo Mark Whalberg), alla madre (Rachel Weisz), alla nonna (una dirompente e divertente Susan Sarandon), ha infatti la sua ‘scena madre’; pur arrivando a dare spazio a tutti, purtroppo il regista sembra non riuscire ad andare oltre, finendo imprigionato in questo meccanismo limitante.

A livello tecnico, il mondo in cui Susie è sospesa – e che costituisce la diretta espressione della sua personalità e dei suoi sentimenti – è presentato spesso in maniera magica, con colori che colpiscono e una fotografia impeccabile. A tratti, però, risulta fin troppo impregnata di un’atmosfera stucchevole, e la colonna sonora new age sottolinea questo aspetto.

L’unico personaggio ben delineato risulta il signor Harvey di Stanley Tucci (nominato agli oscar come miglior attore non protagonista): quasi irriconoscibile con parrucchino biondo e lenti a contatto azzurre, l’attore riesce a dipingere un ritratto inquietante e dai forti connotati maniacali dell’insospettabile vicino di casa con la passione per le case di bambola. Tramite la sua ottima interpretazione, Jackson riesce a dare, narrativamente parlando, il meglio di sé, in un film che risulta curiosamente mancato.

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Un film di Paolo Virzì. Con Valerio Mastandrea, Micaela Ramazzotti, Stefania Sandrelli, Claudia Pandolfi, Marco Messeri.

Commedia, durata 116 min. – Italia 2010 . – Medusa

Lasciata la Roma di Tutta la vita davanti (2008), Virzì torna nella sua Livorno per raccontarci una storia di incomprensioni e di legami familiari. Bruno Michelucci (Valerio Mastandrea), professore di italiano a Milano, costantemente infelice e disilluso, viene contattato dalla sorella Valeria (Claudia Pandolfi) per andare a  trovare la madre (Stefania Sandrelli), malata terminale. Il viaggio di Bruno verso la città natale sarà anche un ritorno con la memoria nel passato, un tuffo nel ricordo di quella madre troppo belle e troppo vitale che l’aveva spinto alla fuga anni prima.

Attraverso la divertente e vitale interpretazione di Micaela Ramazzotti (Anna da giovane), Virzì ci presenta una donna allo stesso tempo forte ed ingenua, che reagisce ad ogni difficoltà in maniera forse inquieta ma sempre senza perdere l’allegria. Questa figura inafferrabile, che non si concede a nessun uomo se non al marito (che non la comprende, scacciandola, pur rimanendone costantemente affascinato), decide di dedicare tutto il suo amore ai figli. Gli effetti di questo amore totale ed incondizionato sono manifestati dal figlio maggiore, che non riesce ad instaurare un vero rapporto con la fidanzata e che cerca di riempire il proprio vuoto interiore attraverso sostanze stupefacenti. Ripercorrendo le tappe della sua vita – attraverso la bella fotografia “anni ’70” di Nicola Pecorini e una colonna sonora dal sapore melodico e retrò – e mescolandole a decisioni e segreti venuti a galla quasi per caso, Mastandrea ci offre un’altra delle sue belle interpretazioni disilluse e sopra le righe (da notare anche l’impegno per riprodurre la pronuncia livornese). Brava la Ramazzotti, che si sta rivelando sempre più in grado di crescere in maniera interessante, stupenda come sempre Stefania Sandrelli e menzione speciale ai comprimari, a cominciare dai bravi Claudia Pandolfi e Marco Messeri: tutti al servizio di una ritrovata commedia all’italiana, senza volgarità gratuite, in cui i sentimenti non sono mai presentati in modo stucchevole ma sempre dolci e con un fondo di amarezza. Come la vita.

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Soul Kitchen

Un film di Fatih Akin. Con Adam Bousdoukos, Moritz Bleibtreu, Birol Ünel, Anna Bederke, Pheline Roggan.

Commedia, durata 99 min. – Germania 2009.

Il regista turco-tedesco Fatih Akin racconta le (dis)avventure di Zinos (Adam Bousdoukos), un immigrato greco proprietario di un ristorante dalle scarse pretese culinarie nella periferia di Amburgo (il Soul Kitchen che da il titolo al film); Zinos ha una fidanzata ricca e viziata, un fratello, Illias (Moritz Bleibtreu) che ha problemi con la giustizia, guai con il fisco e, a causa di un incidente sul lavoro, anche con la schiena. Proprio a causa dei suoi problemi di salute, Zinos decide di assumere un nuovo cuoco, esperto di alta cucina, per rimettersi in sesto e, soprattutto, per raggiungere la fidanzata , corrispondente in trasferta in Cina. Il tutto fronteggiando le continue offerte di un vecchio compagno di scuola, che vorrebbe acquistarne il locale con intenti poco chiari.

Lontano dalle poetiche introspezioni de La sposa turca (2004, vincitore al Festival di Berlino), Akin propone una rivisitazione in chiave soul dei cinque sensi: in questo film a farla da padrona è una divertita (e divertente) esteticità, il gusto per il cibo raffinato, la fotografia accurata, la ricerca della perfezione (culinaria ed artistica: basti vedere le figure del cuoco o della cameriera Lucia, occupatrice abusiva di loft ed aspirante artista). E’ soprattutto la musica, però, ad emergere e a risolvere le situazioni: quando il locale resta vuoto per l’abbandono dei clienti abituali, affezionati ai menù a base di pesce fritto e birra, basta una serata da “sala prove” per riempirlo, regalandogli così il vero e proprio lancio.

Piacevole rivelazione Adam Bousdoukos, protagonista decisamente espressivo, davvero divertente nel suo “corpo a corpo” con il mal di schiena, mentre Moritz Bleibtreu, da The Experiment (2001) a La banda Baader Meinhof (2008), si conferma attore capace e travolgente. Sulle note di una strepitosa colonna sonora, Akin ci guida in una vicenda che, pur risultando astutamente confezionata, sazia gli occhi, le orecchie e l’anima, ricordandoci che i sogni non sono così irraggiungibili se ci si crede veramente.

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A Serious Man

Un film di Joel Coen, Ethan Coen. Con Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed, Sari Lennick, Adam Arkin .

Commedia, durata 105 min. – USA, Gran Bretagna, Francia 2009

Il film si apre su uno shtetl, un antico villaggio ebraico, in cui una moglie ed un marito si trovano a dover affrontare un dybbuk, uno ‘scambiato’, uno spirito posseduto. E con un ammonimento: ricevete con semplicità ciò che vi viene dato dalla vita.

Un secolo dopo, in una anonima città del midwest, Larry Gopnik, docente universitario di fisica in attesa di una cattedra, si trova a dover affrontare un problema dopo l’altro: la moglie non lo ama più, e chiede un divorzio rituale per potersi risposare nella fede con il pomposo collega Sy Ableman; il figlio, prossimo al Bar mitzvah, fuma spinelli e ascolta musica durante le lezioni; la figlia pensa solo a lavarsi i capelli e gli spilla soldi dal portafogli per potersi rifare il naso; il fratello, parcheggiato in pianta stabile a casa sua, tiene un diario sul calcolo delle probabilità che lo porterà ad avere guai con la legge; uno studente tenta di corromperlo per poi minacciarlo di diffamazione. Travolto da questa serie di spiacevoli eventi, l’ordinario Larry cercherà il modo giusto per affrontarli chiedendo aiuto a tre rabbini.

I fratelli Cohen affondano il loro implacabile sguardo in una comunità ebraica di fine anni sessanta, mostrando ancora una volta personaggi ordinari alle prese con eventi straordinari: come il Dude de Il grande Lebowski, il Larry Gopnik interpretato da Michael Stuhlbarg viene scosso nella sua radicata apatia da una serie dietro l’altra di spiacevoli situazioni. I registi si divertono ad inserire il pacato Larry in contesti totalmente estranei al suo essere, ribaltandone con spietata ironia le aspettative (come, ad esempio, l’inaspettata morte di un avvocato che deve finalmente decidere le sorti della delimitazione della sua proprietà). La libertà e le semplici aspirazioni del protagonista riescono a prendere forma solo nelle divertenti sequenze oniriche, anch’esse, però, bruscamente interrotte da epiloghi per nulla incoraggianti. Il percorso formativo di Larry per diventare un mensch, un uomo serio, farà luce sui grandi limiti suoi e della realtà che lo circonda: una vita perfetta e una solida felicità sono difficili da raggiungere ed impossibili da ottenere. Sul possibile happy ending, infatti, incombe la telefonata di un medico ed il progressivo scatenarsi di un uragano.

Il significato ultimo di A serious man non è immediatamente comprensibile: il dialogo in yddish che si scioglie nelle note di Somebody to love dei Jefferson Airplane del prologo, per poi ritornare convertito nei versi rock dello stesso gruppo nelle parole del rabbino Marshak nell’epilogo, chiudendo così un simbolico cerchio, moltiplica i dubbi nello spettatore.

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happy-go-lucky

 

Un film di Mike Leigh. Con Sally Hawkins, Alexis Zegerman, Eddie Marsan, Andrea Riseborough, Samuel Roukin, Kate O’Flynn, Sarah Niles, Trevor Cooper, Philip Arditti, Jack MacGeachin, Oliver Maltman, Caroline Martin, Stanley Townsend. Genere: Commedia, colore 118 minuti. – Produzione: Gran Bretagna 2008. – Distribuzione: Mikado.

A distanza di quattro anni dal suo ultimo film (Il segreto di Vera Drake), il regista britannico Mike Leigh torna a raccontare le donne con il suo inconfondibile stile, fatto di humor e di disincanto. Questa volta ci parla di Pauline (Sally Hawkins), detta Poppy, allegra maestra elementare, che ama le serate in discoteca con le amiche del cuore, gli stivali con i tacchi alti ed il flamenco, e che vive la sua vita con gioioso ottimismo. Ci si rende conto fin da subito di come Poppy guardi alla vita: appena uscita da una libreria nel centro di Londra si rende conto che le hanno rubato la bicicletta, e la sua reazione è solo un dispiaciuto ‘Non ho nemmeno potuto dirle addio!’. Decide così di prendere lezioni di guida, e i botta e risposta con il burbero istruttore Scott (Eddie Marsan) offrono allo spettatore momenti di autentico divertimento (da ricordare, in questo senso, il dialogo relativo al ‘triangolo degli specchietti retrovisori’).

Divisa tra le lezioni a scuola, le lezioni di guida e quelle di flamenco, Poppy sembra aver raggiunto un equilibrio e una felicità straordinari, eppure non è una persona con la testa per aria: quando nella sua scuola nota il comportamento aggressivo di un bambino nei confronti dei suoi compagni, interviene subito cercando di comprenderne i motivi e facendosi aiutare da un assistente sociale. Il tutto sta a sottolineare come Poppy sia sempre e comunque in profondo contatto con ciò che le succede intorno, cercando di viverlo e di capirlo fino in fondo, estrapolando quel che di buono può esserci in esso ed imparando dagli eventi negativi (come, ad esempio, nell’incontro con il mendicante alienato).

Interpretato da una magnifica Sally Hawkins (vista in Sogni e delitti di Woody Allen, 2007), il personaggio di Poppy non risulta mai eccessivo o macchiettistico, ma sempre spontaneo e vitale in modo naturale; per questo ruolo, l’attrice britannica ha vinto l’Orso d’argento come migliore interpretazione femminile al Festival di berlino del 2008 e un Golden Globe come migliore attrice protagonista. Ottimo anche il resto del cast, da Eddie Marsan, burbero e nevrotico istruttore di guida, in realtà bisognoso di affetto, alla migliore amica Zoe (Alexis Zegerman), disincantata e pungente, arrivando all’insegnante di flamenco con (passati, ma ancora persistenti) problemi coniugali.

Con questo film, Mike Leigh esplora ancora una volta il vasto universo femminile, raccontandone il lato gioioso e ‘spensierato’  Il sorriso tutto denti di Poppy, i suoi salti sul tappeto elastico, la sua ostinazione a voler guidare con stivali inadeguati e la sua contagiosa allegria accompagnano lo spettatore attraverso una Londra non più grigia e triste, ma solare e colorata, facendogli passare due ore di allegra e travolgente vitalità.

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the-millionarie

 

Un film di Danny Boyle. Con Dev Patel, Anil Kapoor, Freida Pinto, Madhur Mittal, Irfan Khan. 

Titolo originale Slumdog Millionaire. Commedia, durata 120 min. – Gran Bretagna, USA 2008. – Lucky Red

 

Jamal Malik è un giovane ragazzo cresciuto negli ‘Slum’ di Bombay, i quartieri più poveri e degradati dell’India; sopravvissuto insieme al fratello maggiore Salim alle avversità della sorte con ogni mezzo e con grande inventiva, tira avanti a campare portando il tè in un call center. Almeno fino a questo momento. Infatti, Jamal è ad un solo passo dal vincere venti milioni di rupie al famoso gioco – nell’edizione indiana – “Chi vuol esser milionario”. Sospettato di aver truffato il gioco, Jamal viene arrestato e brutalmente interrogato. Il racconto che farà ai suoi carcerieri ripercorrerà, domanda per domanda, singoli ed importantissimi istanti indelebilmente scritti nella sua vita, che lo condurranno verso Latika, il suo unico grande amore.

 

Danny Boyle, reduce dagli spazi siderali di Sunshine (2007), mostra di essere rimasto affascinato dall’India e dalla misteriosa alchimia di suoni, luci, colori e odori che stordiscono quanti l’hanno visitata. E lo fa firmando un film denso di colori e di musica, raccontando ancora una volta la storia di una magnifica ossessione. Jamal fa di tutto per ritrovare il suo amore perduto, e anche la vincita che cerca di ottenere è interamente votata al ritrovamento di Latika.

 

In contrapposizione a Jamal, personaggio buono e positivo, troviamo invece Salim, il fratello maggiore, che ha scelto il riscatto dalla miseria intraprendendo la strada del crimine. Salim è comunque un criminale di buon cuore, unito al fratello nella sorte e in cerca di riscatto. Da questo punto di vista, risulta chiara la volontà di Boyle di sottolineare le grosse discrepanze che a tutt’oggi segnano gli abitanti dell’India: c’è chi ha tutto (la minoranza), e chi si deve ingegnare per tirare avanti (a questo proposito, colpiscono e fanno sorridere le idee attuate da Jamal e Salim per racimolare del denaro). Anche chi riesce a smuovere questo ingiusto ed immutato stato di cose, però, risulta essere vittima del sistema: vedi il conduttore del gioco, che infastidito dal successo di Jamal e dalla sua inaspettata possibilità di riscatto sociale, lo inganna finendo per farlo arrestare.

 

Ma il personaggio che fa muovere l’intera vicenda è la dolce e fragile Latika, bisognosa di essere liberata dalla protezione di un pericoloso criminale, ma comunque ‘terzo moschettiere’, tassello mancante e disperatamente ricercato dal protagonista ed elemento femminile che esalta le imprese e la forza dei personaggi maschili.

 

Sulle note del compositore indiano Allah Rakha Rahman, immerse in una fotografia dai toni caldi, risucchiate da un montaggio a volte frenetico, a volte estatico, le vicende di Jamal, eroe positivo in un mondo in cui la negatività e i soprusi sono regole di vita, affascinano lo spettatore, trascinandolo nell’ennesima grande ossessione da inseguire ad ogni costo, ed il cui ritrovamento – dall’autografo di una stella del cinema al nome del terzo dei Tre moschettieri – era scritto nelle pagine della sua vita. 

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Un film di Davide Marengo. Con Giovanna Mezzogiorno, Valerio Mastandrea, Ennio Fantastichini, Francesco Pannofino, Roberto Citran, Iaia Forte. 

Commedia, durata 104 min. – Italia 2007.

 

 

Sulla scia dei Manetti Brothers, riagganciandosi ai cosiddetti ‘film di genere’, Marengo porta sullo schermo un romanzo di Giampiero Rigosi (qui co-sceneggiatore insieme a Fabio Bonifaci) e da vita ad un film a metà tra il b-movie ed il noir, ricco d’influenze che vanno dall’action movie al grottesco venato di violenza ‘pulp’.

Protagonisti della vicenda troviamo Leila – una Giovanna Mezzogiorno piuttosto convincente – scaltra ladra professionista coinvolta in un gioco più grande di lei, e Franz – un Mastandrea splendidamente e volutamente sottotono – autista di bus notturni normalmente vile e incapace di bluffare, trascinato in gioco più grande della sua stessa vita.

In una Roma notturna, sottolineata da note di blues e illuminata da fredde luci al neon, i due si ritroveranno perennemente in fuga, a causa dell’inconsapevole furto di un microchip dal valore inestimabile. La storia, dinamica e incalzante, guidata con freschezza e sapienza e arricchita da un cast di tutto rispetto (dall’eccessivo Pannofino all’immenso Ennio Fantastichini) regala momenti davvero interessanti e godibili.

Pur contenendo qualche difetto di sceneggiatura, che provoca discontinuità nel ritmo, ha il merito di essere un prodotto un po’ fuori dagli schemi, una boccata d’ossigeno nello scenario spesso desolante del cinema italiano. Sicuramente un’opera prima incoraggiante, e i titoli di coda, sulle note de La paranza di Daniele Silvestri, fanno uscire dalla sala con il sorriso.

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Wall-e

wallelocandina

 

Regia di Andrew Stanton. Genere: Animazione, produzione USA, 2008. Durata 97 minuti circa. 

 

Dopo la storia del topolino che voleva diventare un cuoco (Ratatouille, 2007), la Pixar torna a stupire e ad incantare con le avventure di un piccolo robot spazzino, unico abitante di una Terra ormai invasa dalla spazzatura. Insieme ad uno scarafaggio come unica compagnia, Wall-e passa le sue giornate a compattare rifiuti, sistemandoli in modo da comporre alti grattacieli, e a raccogliere e collezionare oggetti dalle forme o dagli utilizzi che lo incuriosiscono. La sua solitudine viene interrotta dall’arrivo della robot Eve, un futuristico valutatore di vegetazione extra-terrestre, della quale Wall-e si innamora. Trovata una piantina (donatale da Wall-e), Eve conclude la sua missione e viene recuperata dalla sua astronave, seguita dal suo innamorato. Arrivati sull’astronave Axiom, alla continua ricerca della sua Eve, Wall-e incontrerà un’umanità vittima dell’obesità ed inconsciamente oppressa da un estremo consumismo, costantemente controllata da una sorta di Grande Fratello (la Multinazionale Buy’N’Large che, grazie al potere economico, è arrivata anche al potere politico). Se la prima parte del film, praticamente priva di dialoghi e sostenuta da una colonna sonora ricca di musica (spesso tratta dal musical del 1969 Hello, Dolly!, diretto da Gene Kelly) e suoni è poeticamente riuscita, la seconda parte, con la lotta dei robot per la liberazione degli umani intrappolati in uno stile di vita malsano, risulta un po’ meno accattivante e più convenzionale. Molto piacevoli, ad ogni modo, le citazioni cinefile di cui è ricco il film: dai richiami a Tempi Moderni di Charlie Chaplin, in cui si descrive l’alienazione dovuta alla ripetizione meccanica degli stessi identici gesti, alla strizzata d’occhio a 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, nella lotta tra il comandante dell’astronave Axiom e il pilota automatico AUTO. Se la realizzazione del film lascia lo spettatore sempre più meravigliato di fronte ai progressi della Pixar nel campo dell’animazione, la morale risulta piuttosto immediata: l’umanità rischia il disfacimento a causa dell’eccessivo consumismo e del totale disinteresse per la natura; per tornare a vivere c’è bisogno di spirito di sacrificio, coraggio, combattività e amore. La novità di Wall-e, però, non sta tanto nel messaggio che vuole trasmettere, quanto nel modo in cui lo trasmette: attraverso due piccoli robot che, nonostante appaiano come fredde masse di circuiti e metallo, riescono a farci riscoprire il calore e l’emozione di una mano stretta in un’altra.

 

Da vedere fino alla fine dei titoli di coda, che sulle note di Down to Earth cantata da Peter Gabriel prolungano l’incanto.

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